Crescita personale,  Mindfulness,  Salute psicologica

Rallentare, ascoltarsi, rigenerarsi: una psicologia che accoglie anche la stanchezza

Di fronte a un mondo che spinge all’iperattività, imparare a fermarsi è un atto di cura.
Nel mese di maggio, ho dedicato le puntate del podcast a una serie di temi che ruotano attorno a una stessa domanda: cosa succede quando sentiamo che non ce la facciamo più, ma tutto intorno continua a chiedere energia?
Questa domanda è emersa anche nella mia pratica clinica e nelle conversazioni con molte persone che, pur non essendo “in crisi”, si scoprono stanche, vuote, in difficoltà.

A volte non si tratta di crolli eclatanti. Ma di quella fatica silenziosa che si accumula. E che merita ascolto.

Il mito dell’energia infinita

Viviamo in una cultura che esalta il fare, la produttività, la disponibilità costante.
Essere sempre “sul pezzo” viene spesso scambiato per segno di efficienza, quando in realtà può nascondere una mancanza di ascolto verso i propri limiti.

Nel primo episodio del mese ho voluto decostruire il mito dell’energia infinita: quella spinta interiore (e sociale) a non fermarsi mai, a sentire che rallentare è sbagliato, che riposarsi è un segno di debolezza o inefficienza.
Ma il nostro valore non coincide con quanto facciamo. E non possiamo prenderci cura di niente se non iniziamo da noi.

Come psicologa, vedo spesso persone che arrivano in terapia convinte di essere “sbagliate” perché si sentono stanche. In realtà, stanno solo ascoltando un segnale. Ed è proprio lì che può iniziare un nuovo equilibrio.

La frustrazione che non si vede

C’è un tipo di disagio che non fa rumore.
Non si manifesta con crolli, urla o crisi evidenti. Ma con un lento logoramento interno.

Nella seconda puntata, ho parlato della frustrazione quotidiana, quella che nasce quando non ci concediamo pause, quando pretendiamo da noi stessi troppo, quando viviamo schiacciati tra aspettative e doveri.
È una frustrazione che spesso non viene vista — nemmeno da chi la vive — perché “tutto va bene”, almeno in apparenza.

In terapia, questo tipo di fatica si presenta con parole come: “non ho motivazione”, “non mi riconosco più”, “faccio tutto, ma non mi sento bene”.
Riconoscere questo stato, normalizzarlo e dargli voce è il primo passo per prendersene cura.

Quando aiutare diventa troppo

Aiutare è un gesto umano, nobile, relazionale.
Ma può diventare anche un’arma a doppio taglio, soprattutto per chi è abituato a mettersi da parte.

Nel terzo episodio ho affrontato il tema del burnout emotivo, una condizione che non riguarda solo chi lavora in ambito sanitario o sociale, ma anche chi, nella vita quotidiana, si prende cura degli altri in modo costante.
Il burnout non è sempre “urlato”: spesso è fatto di cinismo, distacco, senso di colpa, irritabilità, difficoltà a sentire empatia.
È il segnale che il nostro sistema ha dato tutto e non riesce più a rigenerarsi.

Come psicologa, credo sia fondamentale legittimare i limiti: riconoscere che anche chi aiuta ha bisogno di essere sostenuto, che l’empatia non è infinita, e che il benessere di chi si prende cura passa anche dalla capacità di fermarsi, chiedere, ricevere.

Riposo come pratica attiva

Abbiamo spesso una visione passiva del riposo: lo immaginiamo come qualcosa che accade “quando finisce tutto il resto”.
Ma il riposo, come ho raccontato nell’ultima puntata, è anche una pratica attiva. Un gesto intenzionale di ascolto, una scelta quotidiana.

Non basta “non fare nulla” per sentirsi meglio.
A volte, nonostante una giornata libera o una serata sul divano, restiamo stanchi. Perché quella non era la pausa che ci serviva.

Esistono diversi tipi di riposo: fisico, emotivo, mentale, sensoriale, creativo…
Conoscerli e imparare a sceglierli è un modo per tornare a sentire il corpo, lo spazio, la mente. E per smettere di chiedere a noi stessi una disponibilità senza fine.

La salute mentale non si costruisce solo nei momenti di crisi.
Si coltiva ogni giorno, anche — e soprattutto — imparando a fermarsi, ad ascoltare, a legittimare la fatica prima che diventi crollo.

Il mese di maggio è stato un invito a guardare con più tenerezza ciò che ci pesa, a smettere di chiedere sempre di più a un corpo e a una mente stanchi, e a fare spazio a nuove forme di cura.

Perché a volte, per prendersi davvero cura di sé, non serve fare di più. Serve fare diversamente.

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